(as usual canzone per il questo pezzo)
Credo a tutti sia capitato di guardarsi negli occhi davanti allo specchio in un momento di solitudine.
Ecco a me tre volte. Tre. Non una in meno, non una di più.
Ed ognuna la ricordo come fosse una foto dai contrasti e tonalità eccellenti. Da conservare.
Sicilia.
Sedici anni, eravamo tornati dalla spiaggia il giorno di San Lorenzo. Si era soliti fare falò e montare le tende e tirare fino a tarda mattinata ubriachi, sdraiati sulla spiaggia.
Quel giorno, mentre facevo girare un cilum bello farcito di marocchino 00 che si trovava solo al nord, feci la domanda sbagliata al momento propizio.
<< Senti ma Ale , ti conosco da 15anni e ti chiamo sempre con il soprannome (che salto per vari motivi) ma non ho mai capito come ti chiami di cognome… >>
In quel momento scese un velo denso di omertà e buio di intenti che schiacciarono persino lo scoppiettare del fuoco. Ricordo Ciccio, il gigante della compagnia: centoquaranta chili per un metro e ottantacinque di carne che con fatica muoveva il collo e la testa in un moto di oscillazione che più di un no mi sapeva di “fatti i cazzi tuoi” e così tutti gli altri ma con gesti più aggraziati.
Ale si girò ridendo, completamente sballato dal thc occhi rossi e sorriso spettacolare e, con la nonchalance di una nigeriana di via ala di Stura a Torino all’offerta di venti euro bocca culo, sorrise e disse: << Santapaola >>.
Io preso dal sorriso completamente poco avvezzo ad altri che mi dicano cosa fare o dire, li misi la mano sulla spalla e dissi “minchia come Nitto!” lui si girò e mi sputò in faccia << arà se, ma cugino, minchia u cunuscisti puri ‘na vota… >>.
Il 26 settembre di quell’ anno, un mese e undici giorni da quel falò suo cugino fu condannato in primo grado per la strage di Capaci. Avevo sedicianni e tornai a casa.
Mi guardai allo specchio. Nel corridoio di via Puglia a Pozzallo. Grande, pulito e splendente. Il corridoio non era più largo di 70cm. Quindi appoggiato schiena al muro mi sembrava di toccare con il naso i miei occhi.
Non mi ricordavo quando e come, sarà stato qualche anno prima o forse quando eravamo piccoli. Alla fine ci conoscevamo da quando ancora facevamo la pipì al mare senza vergogna.
Detto questo probabilmente mi presi un gelato o forse me lo feci offrire da una persona che immergeva i suoi simili nel cemento e poi ordinava una pizza napoletana con doppie acciughe.
Ebbi involontariamente il primo contatto con la maschera.
Quella che ogni uomo tiene in tasca e si mette spesso per coprire il se stesso che odia.
Intanto mi guardavo allo specchio e facevo roteare domande fra i miei occhi e la sua superficie.
Piemonte.
Ventisette anni.
Avevo definitivamente perso il mio primo amore. Otto anni di convivenza. Quattro case, zuppe di cipolla a pranzo e cena e sopra a tutto, sotterfugi e tradimenti.
La causa di tutto furono obiettivi in comune non raggiungibili da entrambi ma sopratutto la mia impossibilità di raggiungerli. Mi buttai in uno sconforto profondo quanto un burrone, sommerso dai suoni dell’ album Nerò a metà di Pino Daniele – me lo regalo Gigio dei COV – dicendomi questo ti spiegherà molto – ancora oggi non riesco più ad ascoltare senza mordermi le labbra, la prima nota di “Quannu chiove”. Centinaia di ore passate a guardarmi allo specchio.
Quello enorme in camera dei miei. A fine primavera partirono per la Sicilia e quell’estate in quei momenti ero fottutamente solo, perso in quella casa da centoventi metri quadri che puzzava solo del sudore di mio padre, versato per comprare ogni minima cosa che mi circondava e, dal ricordo amaro dello sguardo di mia madre quando mi porse la sua spalla per piangere a testa bassa prima di partire.
Ricordo che i miei amici della band fecero i turni per stare a casa mia ed evitare che stessi da solo. Un gesto d’amore che però scaturì in me solo la speranza quotidiana che si chiudessero dietro la porta lasciandomi correre davanti allo specchio a guardarmi.
Quante promesse feci a me stesso davanti a quello specchio, cercando di ascoltare le mie menzogne più profonde, le promesse intime che mi feci e che non riuscì a mantenere e che mandarono tutto in fumo.
Di quel fumo sento la puzza ancora ora. L’onestà con me stesso era persa ma una volta che la ripresi me la sarei tatuata nell’ anima.
Berlino.
Qualche mese fa.
La nostra grossa casa di Kreuzberg ormai era andata. Io nella foga di racimolare soldi per raggiungere Londra mi sballottavo qui e là, prima in casa di amici, poi affittando stanze per pochi mesi fra Barcellona Sants e Berlin Neukolln.
La mia idea imprenditoriale per cui stavo lottando da ormai due anni stava dando i suoi frutti e sentivo che a breve nel giro di qualche anno sarei riuscito a mettere la firma nel quadro che avevo dipinto nella mia mente.
Tuttavia mi sentivo soffocato dall’ idea di non riuscire a correre abbastanza velocemente e di arrivare tardi ad un altro appuntamento, per me in realtà molto più importante, quello del ricongiungimento con chi sentivo chiedere a bassa voce di me.
La casa di Graeferstrasse era la classica wege berlinese: vegani, artisti grafici e un cesso minuscolo all’ entrata.
Con uno specchio. Piccolissimo. Sporco. A meno di 70cm dal muro.
Eccomi di nuovo lì, spalle al muro con gli occhi fissi riflessi.
Ai tempi stavo leggendo un libro di Dostoevskij, I fratelli Karamazov. A quel pazzo di Matthiù, l’unico francese in grado di far breccia nei miei discorsi filosofici in grado di ascoltarmi, seguirmi e rilassarsi, piaceva così tanto Fedor che me lo lessi anche io.
In quel caso l’incontro con lo specchio fu molto più maturo. Sapevo di essere onesto con me stesso ma non sapevo cosa mi aspettasse oltre la manica. Guardavo fisso lo specchio intriso di speranze che si portavano dietro la paura di ritrovarmi al capitolo del vecchio buffone e dover ammonire altri occhi che avrei finalmente incrociato come fece lo stàrek :
[…] L’ importante è che non mentiate a voi stesso. Chi mente a se stesso e ascolta la propria menzogna arriva al punto di non saper più distinguere la verità, nè in sè, nè intorno a sè, e cominca a perdere la stima di sè e degli altri. Non rispettando più nessuno, cessa di amare, e così, privo di amore, per trovare qualcosa che lo tenga occupato e distratto, si abbandona alle passioni e ai piacere grossolani, e si spinge nei suoi vizi fino alla bestialità, e tutto per le continue menzogne che racconta agli altri e a se stesso.
Chi mente a se stesso è anche il più suscettibile alle offese
Continuavo a fissare i miei occhi allo specchio ed, a mesi di distanza, ora che sono a Londra in questo stanzino da 9 metri quadri con tutto capovolto – mi rendo conto di averli lasciati fermi là.
Tutti noi indossiamo maschere. La cosa più difficile è rimanere fedeli a noi stessi. Scrivi molto bene. Le immagini che evochi trasmettono emozioni. Un abbraccio. Anna.